Scaletta 2021 – 20° Concorso
Cerimonia di Premiazione della 20° Edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa “Vittorio Alfieri”
organizzato dall’ Organizzazione di Volontariato ONLUS:
“La poesia salva la vita”
Hanno partecipato al concorso 250 autori provenienti da molte regioni d’Italia ed anche dall’Estero.
Diamo il benvenuto alle autorità presenti in sala ringraziandole di aver accolto il nostro invito. Sindaco dott. Maurizio Rasero
Dott. Gianfranco Imerito Assessore alla Cultura del Comune di Asti
Dott. Giovanni Boccia
Walter Valente Presidente del Lions Club “Vittorio Alfieri” di Asti con la segretaria Sig. Marta Ferrero
Grazie al C.S.V. per il Prezioso sostegno ricevuto.
Ed a tutti voi, per aver partecipato al concorso e per la presenza qui oggi.
La giuria formata da docenti ed esperti qualificati.
Si è riunita per deliberare in merito alle valutazioni scaturite dall’esame dei testi partecipanti, martedi – 07 Settembre 2021 ore 10. E dopo attento esame e valutazione dei tantissimi testi pervenuti. ha deliberato in maniera concorde premiando autori ed opere degne di merito e menzione. La giuria formata da:
Presidente Prof. Davide Ghezzo docente di materie letterarie e latino nei licei, e di scrittura giornalistica per l’università. Ha pubblicato una ventina di volumi tra narrativa, saggistica, poesia e antologie e manuali scolastici, attinenti la modalità fantastica della letteratura, conseguendo numerosi premi e riconoscimenti. Tiene incontri e conferenze sulle tematiche dell’insolito e della spiritualità.
Prof. Claudio Calzone Da sempre appassionato di poesia, storia, musica e letteratura fantastica, Ha pubblicato vari libri di poesie: romanzi e racconti, ha partecipato con un lungo racconto. Tiene conferenze su temi letterari, storici ed esoterici.
Andrea Laiolo – laureato a Torino in Storia del teatro esordisce come poeta con una silloge che vince il premio “Mario Pannunzio” nel 2005. Da allora ha pubblicato varie raccolte poetiche ed opere drammaturgiche. Ha collaborato ad una incisione di musica antica, inoltre si occupa dal 2008 di eventi teatrali e letture poetiche.
Prof. Michele Bonavero – Esperto conoscitore della cultura piemontese, attento alla cura della grafia, docente alla Università delle tre età di Torino.
Prof. Sergio Donna: – laureato in economia e commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura. Cultore della lingua piemontese è autore di racconti, saggi e poesie. Ha pubblicato parecchi libri.
Sig. Gregorio Crudo Pensionato appassionato di letture e scrittore.
Vi annuncio che
Asti è ufficialmente candidata a capitale europea del volontariato per l’anno 2023
Ed ecco i selezionati
La sez. poesia in lingua italiana
(per la lettura dei commenti il Prof. Davide Ghezzo)
4°-tutti PARI MERITO :
4° – classificato – “se t’incontrerò” di Giuseppe Bianco da Casoria (Na)
4° – classificato – “oltre la terra scura, al di qua del mare” di Egidio Belotti da Fossano (Cn)
4° – classificato – “nata papavero” di Cristina Riello da Milano
4° – classificato – “alla ricerca di Maria” di M. Grazia Bergantino da Benevento
4° – classificato – “silente malinconia” di M Luisa Cantore da Trecate (No)
4° classificato – “spaccata si è la luna” di Angela Janigro da Roma
4° – classificato – “la ballata ai tempi della fame” di Lucia Dabarno da Roma
3° classificato – “L’8 dormiente” di Marco Pezzini da S. Giuliano Milanese (Mi)
L’8 Dormiente
E’ giunto il tempo di indugiare al pianto,
le mie fatiche siedono qua pigre
ai bordi del giaciglio dei ricordi.
Novembre smunto reclamava spazio
scrollando il mare con il maestrale
prendendo a schiaffi e sputi lividi scogli
urlando prepotente al litorale.
Nel cimitero delle spiagge spente
dentro le mani tue calzavo il viso
mordendo la tua gonna sbandierante
faro perenne, forte, saldo e deciso.
Quante altre volte, madre, ormai da donna
nella tua rada ho spinto le mie vele;
l’anima sfatta da viaggi tempestosi
la chiglia del mio corpo messa male.
Bastava l’occhio tuo, non le parole,
una carezza, l’odore del tuo petto
per ammansire e spegnere i marosi
serena abbandonarmi nel tuo letto.
Ora tu sei in un punto indefinito
oltre quel mare ed aldilà del cielo
dove il tramonto e l’alba sono un velo
foggiati di forza e di dolcezza
che hai sciolto nel tepore di una brezza
tracciando finalmente l’infinito.
Motivazione: Una confessione corposa e sentita, scritta in versi molto misurati. L’idea della perdita, attraverso una scansione di memorie personali che si accumulano senza perdere ognuna la propria identità, scorre dal passato verso la meta dell’infinito, che la comprende in sé, chiudendosi nel segno dell’8, numero che lo simboleggia.
2° classificato – “All’ombra dei mandorli in fiore” di Grazia Dottore da Messina
All’ombra dei mandorli in fiore
La mente modella armonie
all’ombra dei mandorli in fiore,
tesse merletti con fili di ricordi,
respira l’essere senza far rumore.
Aleggia in misteriosa atmosfera
il sordo incessante risuonare
dell’acqua del limpido ruscello
che rievoca il profumo di te.
Inseguo così le mie tracce,
guardo tra le pieghe dell’anima.
Il vento silenzioso scivola incerto,
solleva polvere nelle strette vie
e spazza gli sconfinati deserti,
si insinua cupo nelle fessure
dove cantavano al sole le cicale.
L’erba intorno s’intristisce
e inghiotte il mio pensiero.
Anni di abisso e di travaglio
hanno consumato illusioni
e distrutto deboli speranze.
L’occhio si posa sulle mie mani
raggrinzite e indurite dal gelo.
All’ombra dei mandorli in fiore
il sole volge al tramonto,
la vita si dilegua scandita dai ricordi,
svanisce il tempo come schiuma di mare.
Motivazione: Delicato componimento sulla memoria e l’introspezione. L’animo è scandagliato con tocco delicato in un’aura crepuscolare e rassegnata. Il senso dello svanire è reso da una versificazione pacata, semplice e piena, condotta su una sequenza di immagini unite dall’idea del distacco.
1° classificato – “Variazioni in tono minore” di Elisabetta Liberatore da Pratola Benigna (Aq)
All’ombra dei mandorli in fiore
La mente modella armonie
all’ombra dei mandorli in fiore,
tesse merletti con fili di ricordi,
respira l’essere senza far rumore.
Aleggia in misteriosa atmosfera
il sordo incessante risuonare
dell’acqua del limpido ruscello
che rievoca il profumo di te.
Inseguo così le mie tracce,
guardo tra le pieghe dell’anima.
Il vento silenzioso scivola incerto,
solleva polvere nelle strette vie
e spazza gli sconfinati deserti,
si insinua cupo nelle fessure
dove cantavano al sole le cicale.
L’erba intorno s’intristisce
e inghiotte il mio pensiero.
Anni di abisso e di travaglio
hanno consumato illusioni
e distrutto deboli speranze.
L’occhio si posa sulle mie mani
raggrinzite e indurite dal gelo.
All’ombra dei mandorli in fiore
il sole volge al tramonto,
la vita si dilegua scandita dai ricordi,
svanisce il tempo come schiuma di mare.
Motivazione: Le immagini, di forte impatto visivo, si traducono in una trama verbale densa e coerente. Il dettato scorrevole e incisivo sbalza i sentimenti malinconici e robusti e li raffigura in un quadro mobile, dove la presenza umana si connette allo spazio e agli elementi, col concorso efficace di un lessico preciso e non convenzionale.
Sez. narrativa in lingua italiana
commenti dei Prof. Davide Ghezzo e Andrea Laiolo
4° “Il canto della Balena” – Enrico Ciccotti di Manfredonia (Fg)
4° “Il viaggio” – Gabriella M. Mariani di Campobasso
4° “Il pescatore” – Salvatore Petrucci di Verona
4° “La quadratura del cerchio” – Gabriele Andreani di Pesaro
4° “Ricordi che volevo dimenticare” – Teresina Testa di Asti
4° “America” – Piko Cordis – Ascoli Piceno
4° “L’ultimo padiglione” – Francesco Gozzo – Binasco (Mi)
3° Exquo – “Un napoletano a Casalpusterlengo” -Alfredo Guarino Di Napoli
Un napoletano a Casalpusterlengo ai tempi del coronavirus
Quella scaletta dell’aereo lo metteva di buon umore. Volo Alitalia atterrato da Napoli a Borgo Panigale, Aeroporto Marconi, alle 14:57, con due soli minuti di ritardo. La discesa a passo felice, saltellando brevemente, sino al saltino degli ultimi due gradini. Era giunto in suolo emiliano.
Si recò a guidare la Fiat 500 con modanatura bianca, cappotta amaranto, con cromatura rossa, che avrebbe dovuto riconsegnare alle 15:30 precise di martedì 25 febbraio 2020. Alla reception dell’Europcar aveva fatto depositare dall’amico Lazzaro una busta preziosa: conteneva due “pinze”, quella con uvetta e quella con mostarda di frutta. Sarebbe giunto in un paio d’ore a Casalpusterlengo imboccando l’autostrada A1/E35 sino alla statale 145. Il tempo per una sosta nei pressi di Reggio Emilia, per un caffè e una confezione di invecchiato parmigiano reggiano di vacche rosse. Si avviava canticchiando allegramente, canticchiando e battendo le dita sul volante, fra motivi di canzoni napoletane e cercando di cantare anche “Romagna mia / Romagna in fiore / tu sei la stella / tu sei l’amore” ma poi si arenò non rammentando più le parole. E sbirciò su Google per calcolare la distanza da Casalpusterlengo. All’indomani, 24 febbraio, si sarebbe incontrato con gli imprenditori agroalimentari di Cremona, che, con la sua esperienza, volevano installare una produzione di mozzarelle e caseari di bufala, ricotta, caciotta, burratina, stracciatella, scamorza, stracchino e provolone. Già allevatori di carne mantova, carne suina (specialmente maialini da latte) e di pollame, che consigliavano per il pollo alla gonzaghesca volevano sperimentare la loro capacità nel settore caseario. Giunto al B&B La Borraccia, parcheggiò la 500 e si avviò all’ingresso, dove l’attendeva l’Alcisa. In quel momento trillò il portatile “Sei arrivato?” “Si, sto raggiungendo l’albergo, ho preso due dolci per te” “Perché non un gioiellino, un anello, una collana, un bijoux?” “Dopo Natale, Capodanno, l’onomastico e il compleanno, un altro bijoux?” un po’ spazientito “E’ il segno dell’amore!” “Se un bijoux è un segno, quelli che ho regalato riempiono l’alfabeto dei segni!” “Ma non sono mai troppi!” “Fammi chiudere prima con quelli di Cremona” “Telefonami, le Cremonesi…” “Sono a Casalpusterlengo” “Peggio, sono Casalese” “Si – con tono ironico – una terribile associazione per l’accaparramento dei maschi¬¬, ciao” “Ciao”.
La struttura aveva dinanzi e d’intorno un bel prato fiorito e alberato, ben curato, e la stanza, con travi di legno a vista nel soffitto, era ampia e confortevole, con la nota stonata di un copriletto rosso. Un bel camino, vicino ai divani, nella sala d’ingresso, con l’elegante scala che conduceva al piano superiore. Ma, soprattutto, al livello del terrazzo, davanti al prato, vari tavoli e sedie di legno riparati da candidi ombrelloni.
Quell’atmosfera di pace e serenità agreste gli infondeva una sensazione di raccolta gioia ed intima distensione. Alla signora Alcisa chiese, poi, se per favore potesse conservare in frigo la confezione di parmigiano di vacche rosse e la busta con le “pinze”, prima di voltarsi e domandare a bruciapelo “Stasera conosce dove potrei mangiare qualche specialità cremonese?” L’Alcisa stava per rispondere, aprendo le labbra, quando da dietro Borromeo, sorridente e perentorio, con inflessione che non ammetteva repliche, sentenziò “Alla ca’ de Mazzoli”. Al ristorante notò che la sala era quasi vuota. Un cameriere, gentile ma che gli apparve impacciato, gli recò il menù. Fece un cenno di rifiuto con le mani “Mi dica qualche specialità cremonese” “il piatto degli affettati…” “Lasci stare, qualche primo” “Pappardelle al vino rosso, salsiccia e raspadura di grana … i marubini” “Cosa sono questi?” “Ravioli al brasato, salame, grana e noce moscata” “Ecco, si può avere un piatto misto dei due che ha indicato?” “Sì e poi?” “Avete dolci?” “La torta Bertolina” “Come è fatta?” “Con uva americana” “Perfetto. e due bicchieri di Gutturnio, per favore” “A seguire?” “Certo, e una piccola minerale gassata”.
Stava notando che nel ristorante, forse una vecchia cascina ristrutturata, vi era una sola persona, quando trillò il cellulare “Sai, a Casalpusterlengo, hanno detto alla radio, oggi è morta una donna anziana per il Coronavirus” “Ma dai, sarà morta per le sue malattie” “Stai attento … lascia stare le Casalesi” “Ma ti pare … devo pensare a chiudere con quelli di Cremona!” “Chiudi e torna subito” “Ok”, congedandosi.
La cena fu buona, i piatti gustosi e succulenti, un po’ pesanti ma ne valeva la pena. Soddisfatto, si alzò, pagò il conto, saluto e rientrò in albergo.
Salì soddisfatto in camera, si guardò allo specchio, sorrise sornione, si spogliò e satollo prese sonno, assaporando una immaginaria torta Bertolina, con uva americana.
-15
Aveva messo la sveglia alle 7:30. Aveva calcolato che alle 9:30 doveva essere pronto per incontrare i “Cremonesi” e concludere l’affare. Pregustando il piatto dell’accordo commerciale, dopo quello dell’accordo sulle note gastronomiche, discese per avviarsi alla colazione. Notò un’aria mesta, smarrita, sul volto dell’Alcisa. “Buongiorno”, disse con tono allegro e lei rispose sottovoce “buongiorno…” “Dov’è la colazione?” pausa di silenzio, poi “Vada pure…” e un singhiozzo annunciò una lacrima “Di là, di là”. Prese posto ad un tavolo preparato e, quando si avvicinò un giovane, silenzioso e spaurito “Posso avere un cappuccino ed un succo d’arancia?” “Sì sì, ma non abbiamo la spremuta” “Fa niente, fa niente… e una fetta calda di pane tostato con marmellata d’arancia?” “Il tostapane ancora funziona… anche un cornetto?” “Se è confezionato, no… ma perché “ancora” funziona?” “Ci hanno lasciato la corrente” “Che significa? volevano togliervi la corrente?” “Per ora no…ci hanno tolto le correnti d’aria…” “Ma che succede?” “Siamo… siamo ZONA ROSSA… non possiamo più allontanarci e nessuno può raggiungerci”. Gli cadde il tovagliolo di mano e rimase a bocca aperta. E l’incontro con i Cremonesi? E l’affare che avrebbe migliorato la sua vita? E la sua azienda a Napoli?
Squillò il cellulare ed una voce squillante “Micheluzzo, cattivone, ancora non mi hai chiamato, come va?” “Sono in zona rossa, non posso muovermi” “Come, perché?” “E che diavolo ne so! Lasciami ora, mi informo e poi ti chiamo, maledizione!”
Apprese che Codogno, Casalpusterlengo e un’altra decina di comuni, in ragione della diffusione del Covid-19, erano stati dichiarati zona rossa; carabinieri ed esercito su tutte le vie di uscita ed entrata ad impedire il transito. Telefonò ai Cremonesi, che risposerò “Sì lo sappiamo, per il nostro accordo vediamo se riparlarne poi”. Chiamò l’agenzia di noleggio dell’auto all’aeroporto di Bologna “Mi costringono a stare qui 15 giorni” “Va bene prolunghiamo il noleggio di 15 giorni, moltiplicando per 17 il costo” “Sì proprio 17…ma che colpa ho io? perché devo pagare per 17?” “17 sono i giorni” “ma non potete venire a prendere la 500?” “No, ci spiace, deve riportarla in aeroporto le raccomando il serbatoio pieno” “Grazie, molto gentile”.
Nervosamente si diede a passeggiare, su e giù, nel giardino, senza mai fermarsi. Gli passò l’appetito, quando il cellulare suono: “Micheluzzo, ancora non mi hai chiamato! tutto risolto, vero? ci vediamo domani?” “Risolto un corno! sono agli arresti perimetrali per due settimane” “La solita scusa… hai trovato qualche Casalese” “Si… e sette giorni da sopra e sette giorni da sotto” “Ne sei capace” “Ah sì! … però poi vado a rilassarmi altri 14 giorni a Salsomaggiore” “Sei brutto, cattivo e antipatico”. Bestialmente nervoso “dovresti capirlo, ciao”
-14
Era da poco sceso per la colazione, che a quel punto poteva andare comunque bene. Aveva realizzato che non vi erano altri ospiti. Suonò il telefono “Amò non mi hai chiamato?” “Stavo per farlo” “Dimmi che mi ami” “Lo sai” “Ma fa bene sentirlo, dai fammi vedere” “Ogni mattina recito il mio Padre Nostro: Padre Nostro che sei nei cieli, dammi oggi il pane quotidiano, e non dimenticarti di ricordarmi che la amo. Ora e sempre. Va bene?” “Sei il solito, scorbutico, e anaffettivo” “Supera gli Appennini il mio affetto, resiste ad ogni colpetto” “Quale colpetto?” “Ciao, stammi bene, ci sentiamo dopo”.
Stava per chiedere cosa ci fosse per colazione quando avvertì che alcune auto giunsero dinanzi all’albergo. Erano i carabinieri e i vigili urbani, tutti in mascherina ed in compagnia di tre camici bianchi con guanti. Suonò di nuovo il telefono. Rispose alzando gli occhi al cielo “Dottore, dottore, sono Carmine, come sta?” “Benissimo! che c‘è?” “Dottore, qui c‘è il dottor Wen Li, con la segretaria e l’interprete – quello di Xi’an che vuole a Xi’an più bufale che guerrieri di terracotta – che insiste per incontrarla, riferendomi che è disposto a raggiungerla perché deve rientrare in Cina” “Carmine, qui non si entra e non si esce” “Mi ha detto che non può attendere” “E digli che sono dispiaciuto, rammaricato, afflitto ma non posso muovermi, convinca le autorità competenti” “Sorride e dice già provveduto” “Ciao eh, salutamelo”.
-13
Dopo la doccia e dopo avere ascoltato la televisione ed essersi nuovamente vestito, era sceso al tavolo del giorno precedente, sperando nel cappuccino, nel succo d’arancia e nella fetta di pane tostato, quando vide avvicinarsi un’auto della polizia urbana e una dei carabinieri. Discesero tutti con guanti e mascherine, notandosi tre in camice bianco con contenitori di plastica. Il graduato, entrando nella sala d’ingresso “soggiorna qui il signor Michele Scaròla?” Si alzò “Scàrola, prego, sono io, che c’è?” con tono da investigazione “Lei è di Napoli?” “Si, perché, che c’è di male?” “Ha già febbre, tosse, faringite, difficoltà respiratorie?” “No, grazie a Dio, ma perché queste domande?” “Socio del dottor Wen Li?” “Socio, socio no… abbiamo un progetto di costituzione di una società … cinese a partecipazione italiana.” “Sì, capito … socio di fatto e di diritto” “E qual è il problema?” “il dottor Wen Li e due collaboratori asseriscono di aver stretto rapporti con lei e hanno chiesto al sindaco l’autorizzazione a poter incontrarla” “Ah…bene…e quindi quando possiamo incontrarci?” “Il sindaco ha emanato un’ordinanza che, per la sicurezza pubblica, dispone la sua quarantena. Le presento i dottori Luciano e Cettina che, con l’infermiere Balduccio, faranno ora il necessario prelievo. Si sieda, non tocchi nulla, e stia fermo”.
Si avvicinarono i tre in camice bianco, indossando una tuta impermeabile, con occhiali, mascherine e cuffie “chini il capo” ingiunse la dottoressa, mentre estraeva dal contenitore di plastica due tamponi “ora le porrò un tampone, prima in una narice e poi nell’altra, e poi un altro tampone in bocca e avremo finito”.
Trillò il cellulare “Amò, hai visto che bella giornata, come stai?” “Non è il momento, poi ti chiamo” “Neanche una parolina dolce, che diamine, che so “zuccariella mia”, è chiedere troppo?” “Non posso. NON POS-SO!, chiaro?” “Brutto scorbutico, è alla Casalese che pensi!” “va’, va a prenderti un bel caffè e poi ci sentiamo”.
La dottoressa estrasse il tampone e lui avvertì una strana sensazione, in quegli occhi che riusciva a scorgere a malapena, una specie di brivido (di febbre o di altro?), occhi che aprono libri – si disse fra sé – ma i suoi occhi ancora non ne vedevano i capitoli.
“Ora – ingiunse il graduato – deve stare in camera sua e non uscirne, sin quando, fra un giorno o due, non si saprà il risultato”. Cettina gli lasciò una mascherina e due paia di guanti di plastica.
-12
Furono i giorni più angoscianti della sua vita “Sono positivo o no?” si chiedeva, serrato in camera. Alcisa e Borromeo furono molto attenti e gentili, quasi affettuosi, gli lasciavano i pasti fuori l’uscio e dotarono la stanza di cuscini, lenzuola ed asciugamani supplementari, anche se evitavano ogni contatto diretto. “Ne uscirò vivo?” si chiedeva, quando non vedeva la televisione – che lo deprimeva ancor di più – o leggeva qualche passo di due libri di Cronin, gentilmente forniti da Borromeo “La valigetta del dottore” e “le stelle stanno a guardare”. Avrebbe rivisto Teresinella, spesso rompiscatole ed inopportuna, alla quale però voleva bene? E Carmine, “il buono”, che organizzava in azienda il lavoro? E la sua amata azienda agroalimentare e casearia, con tutte quelle belle bufale al pascolo? E gli amici e i familiari, specialmente zia Titina – e sul viso affiorò un sorriso – che usciva di casa trionfante col cappellino a fiori, ogni volta che dal forno usciva fumante e trionfante la sua famosa parmigiana di melanzane al cioccolato (con frutta candita, amaretti sbriciolati e mandorle tagliate), la leccornia che riuniva tutti in famiglia?
Una vena di dolente tristezza e anche di raggelante paura gli riaffiorava appena si distaccava dalla televisione o dai libri. E quella mascherina, che gli aveva dato Cettina, gli ricordava qualcosa, qualcosa che aveva visto, sì sì, gli oggetti che Lotte aveva consegnato al giovane Werther nel romanzo di Goethe, il romanzo censurato, che a scuola aveva ricordato il professore. No, no, quella era una storia finita male, non poteva continuare così, doveva pensare positivo. Ma non ci riusciva.
-12
Era intento a leggere Cronin, quando sentì avvicinarsi due auto, quella dei carabinieri e un’ambulanza. Si affacciò alla finestra, vide scendere tre camici bianchi, bardati come palombari imbracati e i carabinieri con mascherina e guanti. Una cappa di piombo cadde sulla testa e il sangue si gelò, quasi raggrumato nelle vene “Ecco sono venuti a prendermi” si disse.
“Signor Scàrola, Signor Scàrola, venga subito giù, la cercano”, al telefono Borromeo.
Tolse lentamente le pantofole, indossò le scarpe, vi passò della carta igienica per pulirle – forse l’ultima volta – fece un respiro profondo e discese. Si avvicinò la dottoressa, aprì una borsa e prese un foglio “Abbiamo le analisi: lei, al momento … è totalmente negativo”.
Una vampata di calore di gioia lo pervase, dietro quel camice si accorse che vi erano seni e gambe, che immaginò i più graziosi al mondo, e quegli occhi gli apparvero sorridenti e suppose che dietro quella mascherina vi fosse una sorridente bocca carnosa. L’entusiasmo era alle stelle.
Fissò quegli occhi e non seppe trattenere il ricordo della poesia di Nazim Hikmet, pronunciando incantato “I tuoi occhi, i tuoi occhi i tuoi occhi / che tu venga in ospedale o in prigione / Nei tuoi occhi porti sempre il sole” quegli occhi sembravano sorridere di più. Una pausa e intervenne il graduato “Anche se negativo, lei deve restare in quarantena”. Cettina aggiunse “Fra una settimana ritorneremo per un tampone di controllo”.
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Nei giorni seguenti la vita fu differente. Con la restrizione di non doversi allontanare dall’albergo e di dover rispettare le distanze, ma senza l’angoscia assillante di prima e con qualche possibilità di uscire un poco dalla stanza. Gli avevano consentito di recarsi in giardino, un’ora al giorno, per curare alcune piante di anemoni, primule e calendule.
Con le calendule gli prepararono un buon risotto con aglio e cipolla, tirato con un bianco Quistello.
Quell’ora d’aria gli era particolarmente gradita anche se, molto spesso, l’aria quieta fresca e limpida era come strappata dall’urlo delle sirene delle ambulanze, che recavano i contagiati all’ospedale di Lodi. L’Alcisa gli preparò anche una torta mantovana e un Bussolano per colazione, e per cena una torta Elvezia (con mandorle e zabaione) e una “torta di tagliatelle” (che strano, anche nell’entroterra napoletano, nel giuglianese, si preparava una delizia simile, la “pastiera di tagliatelle”) mentre il Borromeo, oltre a dargli a prima mattina una copia de “Il cittadino di Lodi”, gli aveva procurato alcuni CD di Peppino di Capri, Lina Sastri, Massimo Ranieri e Pino Daniele.
E alla signora Alcisa spiegò alcuni primi piatti della cucina povera napoletana: “‘o scammaro” (frittata di pasta mista con olive, pinoli ed uvetta), gli spaghetti alla “chiummenzana”, la specialità Caprese, con pomodorini, aglio, peperoncino, origano e basilico.
Non se la passava male. Anche le telefonate di Teresinella, le canoniche 5 dei lustri del giorno, erano divenute più lievi, agrodolci, con sentore di aspro e a volte frizzantino.
Restava la preoccupazione del successivo tampone e forte il desiderio di varcare il cancello che lo confinava, almeno per vedere la torre Pusteria e il Convento dei Cappuccini, che gli erano stati lodati dal giovane della colazione, che scoprì chiamarsi Gaspare.
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Venne il giorno del secondo tampone, quando giunsero i tre in camice bianco, stavolta senza i carabinieri. Cettina, con quegli occhi neri sorridenti dietro la mascherina “Su, un’ultima prova e sarà poi rassicurato definitivamente” “sì ma ad una condizione: che venga lei a comunicarmi il risultato, sento che mi porta fortuna”
Rise compiaciuta e prelevò i campioni. “Non vi fermate per un caffè? … non è quello di Napoli ma la miscela non è da gettare … se invece di colorare l’acqua col caffè si pensasse di ingentilire il caffè con l’acqua…” “No, grazie, dobbiamo correre… siamo in piena emergenza, a domani”.
Micheluzzo ancora temeva ma si sentiva fiducioso, Cettina gli avrebbe recato fortuna. Quel giorno finì di leggere l’ultimo libro di Cronin, percorse più volte il giardino e si fermò a guardare gli anemoni viola, rossi, bianchi e rosa sino ad ammirarne uno a cerchi colorati concentrici bianchi, rossi e gialli che colse per donarlo ad Alcisa, quando, senza mascherina, giunse Cettina. “Ecco lo avevo colto per lei!” “Ma come sapeva che le avrei dato una buona notizia…è negativo!” “Grazie, grazie a Dio e a lei. In questi giorni ho molto sofferto e riflettuto. Ho riacquistato il piacere delle piccole cose, dei passi del quotidiano, dei gesti dell’incontro, dello sguardo su persone che troppo spesso abbiamo incrociato di sfuggita e che avrebbero meritato di più, molto di più di un fuggevole attimo. Possiamo prenderci almeno un caffè…il più ristretto possibile.” “E vada per il caffè, 5 minuti soltanto”.
Quando si sedettero, “Lei mi ha concesso solo 5 minuti ma i suoi occhi fermano attimi di eterno”. Arrossì e sorrise, lui la guardò a lungo, negli occhi, senza parlare mentre sorseggiava il caffè. Lei arrossì di nuovo, su quel bel viso già roseo, vezzeggiato da una ciocca di capelli biondo miele.
Poco dopo i 5 minuti, Cettina si alzò e anche Micheluzzo si alzò, lei tese la mano e strinse quella di lui a lungo mentre un brivido lo scuoteva e riscaldava le sue vene. Quando lasciò il cancello, gli venne in mente “dicitincello vuje…” “è na passione / cchiu forte ‘e na catena / cu st’uocchie doce / vuje solo mme guardate / levammece ‘sta maschera / dicimmo ‘a verità”.
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Ormai era prossimo alla fine della quarantena. L’ultimo giorno salutò, con simpatia e gratitudine, Alcisa e Borromeo e si avviò a prendere la 500 bianca con modanatura e cappotta amaranto per riprendere a Borgo Panigale l’aereo che lo avrebbe riportato a Napoli, senza più le “pinze” ma con il parmigiano reggiano di vacche rosse. Avrebbe riallacciato i rapporti con i Cinesi e i Mantovani? Avrebbe potuto proseguire con Teresinella, irrefrenabile con le telefonate? Avrebbe mai più rivisto Cettina? E a Napoli il Covid-19 sarebbe arrivato?
In una busta Cettina ritrovò una collana di corallo di Torre del Greco con gemme rotonde di perle nere, nere come i suoi occhi, con una dicitura e una firma “I sogni possono avverarsi. Micheluzzo”.
3°Exquo – “Si alza la marea” Emanuele Rizzi di Frabosa Sottana (Cn)+
Si alza la marea
Mi chiamo Lisa e ho diciassette anni.
Si dice che il mare accenda emozioni diverse nei cuori delle persone, ma ancora non ho capito quale sia la mia. È difficile che qualcuno ignori l’immensità dell’oceano, soprattutto nei villaggi di pescatori come quello in cui sono nata. C’è chi lo ama e passerebbe la vita intera sopra una barca – ne è un esempio mio padre – ma anche chi ne è terrorizzato e non vuole saperne di navigare.
Un caso più unico che raro, invece, è quello del signor Bellini.
Io non gli ho mai rivolto la parola, né lui s’è mai preso la briga di rivolgerla a nessuno. Girano alcune voci secondo le quali vivesse di quanto pescava suo figlio, che ogni mattina si alzava di gran lena per partire dalle morbide sponde. La vita del signor Bellini, quando era in compagnia del suo pargolo, è sempre stata silenziosa, serena e lontana dalla spiaggia.
Questo, almeno, fino al giorno in cui il mare glielo portò via.
Da allora trascorre le giornate seduto sulla battigia a fissare l’orizzonte, senza muoversi fino all’imbrunire. Quando arriva il vespro, senza pronunciare alcunché, si alza e se ne torna a casa.
Noi cerchiamo di non parlare della sua storia, o almeno non per le strade del paese dove persino i gabbiani hanno orecchie acute. Soltanto i fili delle donne che tessono, insieme forse alle vele dei pescherecci, sono testimoni del racconto rimasto appeso alla legge del silenzio.
Oggi c’è bel tempo. Quando la pioggia risparmia le tegole dei tetti, i bambini giocano per le strade o aiutano i padri con la pece per gli scafi, mentre le donne si affaccendano per cucinare, lavare e stirare.
Alcune fanno persone fatica a passare inosservate, come la signora Mezzagamba. Quella vecchina si è guadagnata il soprannome zoppicando per le strade come un merluzzo sulla sabbia, ma il suo vero nome non lo ricorda nessuno. Poi, da sei mesi a questa parte, non l’abbiamo più vista.
Qualcuno dice che sia spirata, ma il vecchio Lamborgia, il più anziano del paese, la sera lascia sempre davanti alla sua porta un cestino di uova, latte e pane; all’alba gli alimenti non ci sono più.
La casetta della signora Mezzagamba è lontana dal villaggio, annidata accanto alla scogliera che si lascia abbracciare dal mare. In questo periodo dell’anno, quando si alza la marea, l’acqua arriva alle finestre e lei deve trasferirsi per qualche giorno.
Mentre cammino verso la spiaggia, passando per la via del paese, mi domando che cosa farà quest’anno. Forse, se le sue gambe glielo consentiranno, riusciremo a rivederla ancora.
Il garrito dei gabbiani accompagna le barche nel loro quieto scivolare. Papà sta rientrando insieme agli altri pescatori, ma ripartiranno subito. Si fermano giusto il tempo per mettere qualcosa sotto ai denti; siccome ci sarà l’alta marea per almeno un mese, devono darsi un gran da fare per riempire i magazzini.
Come sempre, noi ragazze corriamo ad accoglierli sulla battigia. Il sole ci bagna la pelle e la sabbia si arrampica sui capelli. Ci aspettiamo di trovare acciughe, canocchie, calamari e lucci da pulire, ma i volti stanchi degli uomini che sbarcano non lasciano spazio ai dubbi.
«Nulla. Non abbiamo preso nulla» bofonchiano. Hanno musi scuri come gli scafi impermeabili delle imbarcazioni, ora in balìa del dondolìo della spuma biancastra.
Ce ne stiamo in silenzio, nessuno ha il coraggio di ammettere che non possiamo sopravvivere senza il pescato. A quanto pare il numero di pesci è diminuito, complici le industrie che con le loro gigantesche navi ne tirano su tonnellate e tonnellate. A noi resta ben poco da pescare, ma non abbiamo mai avuto il desiderio di svuotare l’oceano.
Vogliamo solo mangiare.
L’espressione sul volto di mio padre è una spennellata di umiliazione. Quando siamo seduti a tavola, mamma cerca di distrarlo un po’. Ancor prima che rientrassimo, lei sapeva già tutto. Aveva parlato con la vicina, la signora Norbetti; non c’è notizia, grande o piccola che sia, che non attraversi la porta di casa sua.
«Marcello, pensavo di preparare lo stufato» dice mia madre.
«Sì, come ti pare» risponde papà, a monosillabi. Soltanto una rete strabordante di pesce potrebbe risollevarlo.
Fisso la salopette umida appesa al muro; è come se fosse stata tirata a lucido, spazzolata più dei baffi di mio padre. Non c’è traccia dell’odore del mare, né tantomeno dei segni di lotta di cui i pescatori vanno così fieri. Nessun branzino sembra essersi dimenato, oggi.
Ingurgita controvoglia un paio di forchettate, indossa il cappello e la salopette, per poi avviarsi verso l’uscita. Non so se sia per orgoglio o per dare una mano, ma dalle mie labbra sfugge una manciata di parole.
«Vengo con te, papà» dico, prima di irrigidirmi.
«Che cosa stai dicendo? Temo di non capire, Lisa».
Stringo i pugni. I muscoli sono in trepidazione. «Voglio darti una mano. Insegnami a pescare».
L’imbarazzo striscia sui muri della stanza. Mia madre è talmente sconvolta che non sa cosa dire; solo un intangibile spasmo della mano, forse nel tentativo di fermarmi, è l’unico segno che ancora è viva. Mio padre invece, dopo un istante di esitazione, crepa il silenzio con una grassa risata.
«Tu? Una donna per mare? Non farmi ridere!» tossisce.
«Io voglio venire con te». Sento il sangue ribollire nelle vene, l’emozione prende il possesso del mio corpo. Adesso il viso dell’uomo si fa serioso.
«Devi essere impazzita. Porta sfortuna far salire una donna su una nave. E poi, è troppo pericoloso. Dio mi fulmini se permetterò a mia figlia di andare per mare!».
Per quanto io sia spaventata e senta le articolazioni scricchiolare, gli occhi non mi tradiscono. Mamma, che è rimasta in silenzio fino ad ora, apre bocca.
«Marcello» pronuncia, prima di fare una breve pausa. «Penso che un paio di braccia in più potrebbero farti comodo. Se non prenderete qualcosa nelle reti, Dio può anche fulminarti perché moriresti comunque di fame». Per quanto mi sforzi di ricordare, credo sia la prima volta in cui trova il coraggio di schierarsi contro di lui.
Papà oppone ancora un po’ di resistenza ma, stanco dalla disastrosa giornata, si arrende sbuffando.
«D’accordo, ma solo per oggi. Partiremo per ultimi, così nessuno ti vedrà. E mettiti il cappello, non voglio che la sfortuna si accorga che sei una donna».
Prima di salire sulla barca, poso lo sguardo sul signor Bellini. È ancora lì, immobile come uno stoccafisso, perso in un punto lontano dell’orizzonte. Non dice nulla, continua semplicemente con il suo rito di contemplazione. Che rapporto c’è tra lui e il mare? La sua espressione non sembra carica di tristezza e disperazione, a differenza dei nuvoloni che hanno rapidamente coperto il sole.
«Lisa, dobbiamo sbrigarci. Tra non molto arriverà una tempesta». Papà, che dopo aver caricato le reti spinge il piccolo peschereccio in acqua, mi convince a distogliere lo sguardo dall’uomo seduto sulla sabbia. È in questo momento che sento per la prima ed unica volta la voce del signor Bellini.
Non somiglia a un lamento, né tantomeno a un monito; è come un flutto stanco che si spezza contro la scogliera.
«Si alza la marea».
Ho sempre sognato di solcare il mare e imparare a pescare. Penso di essere la prima ragazza che ne ha l’occasione, ma non ne sono certa; io di storia non ne so un granché.
Papà mi ha spiegato come utilizzare la canna da pesca, dal mulinello fino all’amo. Sono in attesa da circa venti minuti. Lui invece sta controllando le reti che abbiamo gettato sul fondale.
Siamo partiti che il filo azzurro era praticamente immobile, ma ora le onde iniziano a ingrossarsi; non abbiamo molto tempo prima che ci costringano a tornare a riva.
Improvvisamente ricevo uno strattone deciso e per poco non finisco in acqua. Cado sulle ginocchia, tengo la manovella come mi è stato spiegato e tiro con forza nella direzione opposta.
«Papà! Ha abboccato!» urlo.
Ecco che mio padre, pescatore esperto, si precipita dall’altro capo della barca e mi aiuta a tirare, dando un po’ di lenza e bloccando il mulinello a tratti.
«È bello grosso» esclama. «Dai che è nostro! Forza Lisa!».
Con tutte le energie che ho in corpo, sforzando ogni singolo muscolo come se da quella battaglia dipendesse la mia stessa vita, grazie a un colpo di reni vedo guizzare fuori dall’acqua un’enorme cernia che finisce ai miei piedi. Combatte e si divincola, ma ormai è presa.
Papà sorride soddisfatto, mentre le gocce di sudore gli scavano la fronte.
«Mi venga un colpo se mia figlia non è una pescatrice nata! Peserà almeno quaranta chili!» sghignazza.
Sono stremata. Dovremmo riuscire a tornare in fretta, ma papà è ancora teso. Il mare si sta ingrossando ancora.
«Questo non basterà, ma è già qualcosa. Speriamo che le grandi navi da pesca ne abbiano lasciato qualcuno in più» dice, spostando lo sguardo verso l’orizzonte. «Tuttavia, temo che per ora dovremo accontentarci. Arriva la tempesta».
Non so come sia successo, ma in pochi minuti la situazione è degenerata. Non ho mai visto onde così grosse e il violento scrosciare della pioggia non è d’aiuto.
«I remi, dobbiamo usare i remi!» urla papà. Le sue parole sono spezzate dal gorgogliare del mare che si abbatte sull’imbarcazione.
Io inizio a ramare, ma la paura è tanta. Mi tremano le mani, non posso esitare o finiremo inghiottiti dai flutti. La spiaggia non è lontana, vedo le luci del villaggio, eppure la corrente ci porta verso la scogliera. Mi sento annegare dentro.
Lottiamo come branzini che vogliono sfuggire alla cattura, con la rete dell’oceano che non lascia scampo. Dopo pochi attimi lo scafo si scontra con gli scogli ed entrambi siamo a faccia in giù sul ponte di legno, ormai fradici. Ci alziamo lesti, combattiamo con la corrente e con le onde. In qualche modo riusciamo a entrare nella baia, ma la spuma biancastra ha ormai ricoperto tutto: ha già superato le finestre della casa della signora Mezzagamba.
Raggiungiamo la spiaggia, saltiamo giù e l’acqua ci arriva al petto. Gli abitanti si stanno dirigendo verso il pendio; ci sono tutti, ad eccezione del signor Bellini. Se ne sta ancora immobile, lasciando che i flutti lo colpiscano prima di ritirarsi. Forse non vuole andarsene? Vorrei chiamarlo, ma papà mi trascina via. Dopo qualche minuto di risalita, ci sdraiamo sulla cima del crinale con il fiato spezzato.
Mia madre e la signora Norbetti, seguite dalle altre novanta anime del paese, sono lì, pietrificate in espressioni straziate e disperate. Anche la Mezzagamba pare essersi tratta in salvo, aiutata dal vecchio Lamborgia.
Mentre osservo lo spettacolo di devastazione, vorrei domandarmi cosa ne sarà di noi, ma i miei pensieri sono rivolti altrove; su ciò che resta della spiaggia non c’è più nessuno.
Possibile che mi sia immaginata il signor Bellini? Un riflesso del mare, un guizzo indeciso o forse la spuma mi hanno tratto in inganno? Vorrei controllare, ma non c’è nessun corpo.
Ormai non c’è più nessun villaggio.
Motivazione: Una scena consueta della vita dura di chi vive il mare per necessità, ma anche l’amore per quell’elemento che esige rispetto. Una bella storia di affetti e di voglia di farcela-
2° “Gli invisibili” Maria Teresa Montanaro di Canelli (At)
GLI INVISIBILI (Là, dietro la curva…)
La strada si snoda a tratti più stretta, a tratti più ampia, salendo verso le colline che abbracciano da sempre Torino.
Il caos del traffico scema, la gente che si incontra cammina più lentamente, ai grovigli di strade si sostituiscono gli alberi.
Sembra che il tempo, qui fuori dal centro, si dilati per lasciare alle persone la possibilità di riflettere, di pensare.
Una grande curva che piega a destra; il panorama è molto bello, si vede tutta la città. Parcheggio ed osservo l’edificio.
Chi transita velocemente non può capire di che cosa si tratta, l’indicazione è troppo piccola…
L’entrata, costituita da un cancello scorrevole, potrebbe essere quella di un asilo come quella di un’autorimessa.
Entrando, un ampio cortile quadrato. E appena ci si trova lì, il mondo che abbiamo lasciato fuori diventa lontano, sfuocato, irreale. Qui in questo cortile capisco paradossalmente che solo ora
faccio parte della realtà.
Una porta, un breve corridoio; l’ascensore.
I “dimenticati” sono qui sopra di me: al primo piano, gli autosufficienti; al secondo, parzialmente autosufficienti; al terzo piano gli altri. Vado all’ultimo piano.
L’odore di medicinale mi assale ricordandomi che questo mondo è un pianeta a parte, con un’aria tutta sua, e non sempre piacevole da respirare.
Non c’è tempo di perdersi nei pensieri: davanti a me, la prima camera.
Due letti: in uno Giovanni, nell’altro più nessuno.
Già, mi dimenticavo; lui, quello dell’altro letto, era qui perché un tumore stava pian piano
invadendo tutto il suo corpo.
Nel giro di una settimana ha smesso prima di mangiare, poi di camminare, poi di scherzare con il compagno di stanza, poi di sorridermi quando venivo, poi di parlarmi, poi di guardare nella mia direzione. Oggi non occupa più quel letto rifatto.
Giovanni mi vede e subito i suoi occhi si fanno lucenti. Qualche volta mi racconta di sua figlia,
qualche volta di quella mattina in cui metà del suo corpo ha smesso di vivere.
In fondo al corridoio bianco c’è il salone. I letti percorrono tutto il suo perimetro. Ora si capisce meglio di essere in un istituto per anziani. Guardo negli occhi l’altra faccia dell’anzianità. Una umanità debole e marginale. Un mondo che scorre parallelamente al nostro, ma che spesso non intersechiamo perchè i vecchi non li vuole nessuno… Molti occhi stanchi si posano su di me, qualcuno mi vede bene, per altri sono una macchia di colore. Le orecchie non sanno distinguere con esattezza i nomi che vengono chiamati o gridati.
Alcuni chiamano l’infermiere, altri si lamentano di chissà quale dolore, parecchi vorrebbero cambiare posizione, ma da soli non possono farcela; alcuni mi dicono una parola, qualcuno infine chiama e basta. Molti non chiamano più.
Quanti sono? Quanti anni hanno? Perché sono qui? Perché loro? Quanti frammenti di storia, quante vite vissute intensamente o con passività, quanti padri, quanti nonni. Facce incise dalla fatica, scolpite dal cumulo degli anni, occhi di una pacata rassegnazione dietro una ragnatela di rughe, corpi nodosi come tronchi d’ulivo e in una tasca polverosa del cuore un pugno di ricordi secchi da sgranocchiare.
Nell’aria si sentono le fiamme spente di antichi amori, dei loro sogni, dei loro progetti, delle loro parole fatte o non dette mai, dei loro momenti belli o brutti, dei viaggi, delle delusioni; si avverte l’eco della loro antica forza, di un vigore che non torna, delle lacrime versate, del tempo sprecato in passato, quel tempo che poi è scivolato così rapido. Per tutti un destino comune, da vivere, questa volta, con tutto il tempo. Qui il tempo non fugge più, non ha più fretta. C’è tutto lo spazio per… cosa?
Per pensare, ripensare, pentirsi, rifare tutto con i sogni, rivivere ogni cosa con la memoria, cambiare il passato con la fantasia.
Ma questo presente è così immobile da soffocare la mente: e così il più delle volte le ore servono solo per piangere, per sentire il nulla inesorabile di una malattia, per aspettare l’ora successiva. Guardo questi uomini che giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, perdono a poco a poco l’orgoglio, il pudore; ne scoprono l’infinità inutilità.
Renato è in fondo al salone. E’ paralizzato da otto o nove mesi. Prega moltissimo, progetta attività giovanili, si rattrista di aver parlato male al dottore o all’infermiera.
Ma parla sempre di meno di quando uscirà. Non ci crede più. Seduta su una piccola sedia di legno impagliata, con indosso una coperta che l’avvolge, un’esile e minuta anziana mi guarda con i suoi occhi azzurri velati di tristezza, ripetendo sempre la stessa frase come un disco rotto: “Lasciami in pace, sono sola, ho freddo,mi chiamo Lisetta”! Lisetta, una ragazza madre che ha affrontato tanti sacrifici per crescere da sola una figlia irriconoscente che si è dimenticata di lei come fosse un oggetto vecchio e l’ha cancellata per sempre dalla sua vita! La voce fa fatica ad uscire e quel dolore atroce e sordo l’ha resa sola e triste. Si ferma un attimo ad asciugarsi gli occhi, quindi riprende il racconto. “Secoli fa avevo un lavoro, una bella casa e tanti amici. Poi la ditta è fallita e ha licenziato tutti. Ero una segretaria di direzione, e tutti i ricordi, belli e brutti,li ho dentro il mio cuore. Senza soldi ti sfrattano, non mangi, non vivi più e gli amici scappano lasciandoti sola come un’appestata. Puoi permetterti solo un attico a cielo aperto, e, come tetto, scatole di cartone. Ho trovato più amici e umanità in questo mondo di “invisibili” che tutti disprezzano, piuttosto che tra le persone cosiddette “normali”. Cammino lungo un corridoio dove si affacciano alcune camere dei degenti, le porte in vetro lasciano intravedere le persone coricate sul letto. Roberto, dopo la morte improvvisa della moglie, ormai conviveva con la sua solitudine che lo accompagnava dall’alba al tramonto, con il cuore sempre in gola e con l’anima in disparte, fuori dal tempo, ai margini della realtà, precipitando nell’abbandono di sé! Il suo cuore era come un vetro incrinato che poteva andare in frantumi in qualsiasi momento. Un giorno fece un incontro che lo scosse da quello stato di torpore e di immobilità dello spirito in cui era sprofondato. Quell’uomo sarebbe diventato il suo migliore amico. La loro amicizia era scaturita dal bisogno, cresciuta con la conoscenza. Era un’amicizia armata di pazienza, alimentata da autenticità. E ora Roberto era incredibilmente felice a dispetto della tristezza che lo attanagliava! I loro passati non erano poi così dissimili. Sovrapposti,molte linee combaciavano perfettamente. Erano linee di persone ferite in attesa di un risveglio o di una via d’uscita. Linee di chi forse è caduto nel vuoto ma ha incontrato un suo simile, una sorta di angelo che gli sussurrava: saremo amici per sempre! Purtroppo, nonostante le cure,lo stato di salute di Roberto peggiorava di giorno in giorno e anche la terapia del dolore si dimostrava sempre più inefficace. Michele, il ragazzo della stanza nove, i cui genitori hanno lentamente iniziato a smettere di venire a trovare,dimenticandosi di lui, non è l’autistico geniale del film che impara le cose a memoria per poi stupire amici e parenti. Lui è chiuso nel suo castello inespugnabile, ha costruito una fortezza intorno a sé, per difendersi da un mondo che non lo comprende. A volte si dondola avanti e indietro con la schiena, quel cullarsi così dolce e rassicurante lo fa sorridere. A volte si batte le mani sulle orecchie quando i rumori lo infastidiscono troppo,oppure si torce le dita, e se le tira così forte che ho paura che si faccia del male. Michele si siede sul divano e segue con aria assente le immagini che scorrono nella televisione, in fondo al salone. Alza lo sguardo e i suoi occhi si posano nei miei. E dentro di essi vedo un bagliore che lo illumina, uno scintillio che parla di vita, un’espressione che sembra gioia. Mi siedo vicino e lo stringo forte. Mille domande mi attraversano la mente…
Giuseppe è nell’angolo in fondo a destra. Mi accosto al suo letto e volto le spalle al salone.
Voglio parlare un po’ con lui, c’è molto da imparare.
Alle 18:30 l’infermiera porta la cena; ne approfitto per aiutarlo a mangiare: non può infatti portare i bocconi alla bocca da solo; è affetto da una malattia che ha leso tutto il suo corpo e il viso.
Cosa dirgli? Di che cosa parlare con lui? Intanto, riempio il cucchiaio di pastina in brodo e lo imbocco.
Deglutisce e sembra soffrire per ritrovare il filo del discorso interrotto: stringe gli occhi che vedono male e corruccia le sopracciglia in una smorfia che commuove. Mi sembra di percepire lo sforzo della sua mente che fa ordine fra i pensieri: poi la sua voce simpatica,flemme ed ovattata, ritorna fra le voci drammatiche del salone. Guarda il soffitto, sorride di tanto in tanto; nel suo viso non c’è traccia di impazienza né di fastidio. Non traspare da lui nessuna insoddisfazione, nessun rancore. Può forse conoscere la fretta, l’ansia, il rimorso?
Giuseppe no, non può provare questi sentimenti; non conosce paura, confusione, dubbio, vendetta, desiderio, sesso, sconfitta, gioia …
Giuseppe no, non può conoscerli, perché ha cinquanta anni e da quaranta è all’istituto.
Chi è un bambino di dieci anni che ha chiuso la porta sul mondo e per il resto della vita è stato in un letto?
Quante persone sono arrivate lì e poi se ne sono andate…e lui era già là, c’era dopo, c’era sempre.
Giuseppe non può leggere, non può vedere le foto di una rivista, non può camminare, non può stringere la mano di nessuno.
“Io non me la prendo proprio mai, io non mi arrabbio con nessuno.” mi ha detto un giorno, sentenziandolo con la sua voce che sembra proclamare le grandi verità che non hanno tempo né fine. E per me lo sono diventate.
Che idea ha del mondo, della vita, del “bene”, del “male”? Non riesco ad immaginarlo nonostante mi sforzi. Vorrei fosse lui a dirmelo, provo a dividere i suoi pensieri, ma cado in partenza
Non posso, io, immaginare cosa significhi aspettare l’indomani per vedere lo stesso letto, lo stesso
salone, le ore interminabili che si sono succedute per quaranta anni: solo, solissimo, con una mente immatura, con l’esperienza di dieci anni di vita, con i ricordi di quei pochi anni. Nessun passato vero, nessun futuro…un interminabile presente vuoto di tutto.
Però… la visita di un ragazzo, la mia visita: un’esplosione di novità! Gli verso un bicchiere di
sciroppo di menta ed acqua: la settimana intera diventa movimentata; in un vuoto lungo più del doppio della mia stessa esistenza, un minuto con un visitatore è per lui un’emozione estrema, una gioia, un’avventura!
Io sono lì e non so cosa dire, cosa fare, cosa raccontare, poi capisco che basta una parola, una banalità qualsiasi. Capelli castani e ricci sparsi sul cuscino, lineamenti diafani, gli occhi chiusi. Il viso di Annalisa è appoggiato al cuscino. Pallido, nella penombra delle persiane abbassate.Sono infinite le storie di dolore, squarci di vita vissuta, dimenticata dal mondo! La voce dell’infermiera mi distoglie dai pensieri. Ripercorro il corridoio verso l’uscita.
E’ il momento di andare. Mi volto per l’ultimo sguardo all’istituto e mentre chiudo il cancello una lacrima dispettosa scende all’improvviso!
Fuori la vita non è più la stessa.
Torno a casa: la gente ride, la gente scherza, i clacson suonano forte, i negozi espongono ricchi prodotti colorati, le luci brillano di sera, i ragazzi passeggiano, ridono forte spensierati.
Il contrasto fa male. Quale dei due era sogno? Che cos’è più vero?
Due adulti litigano, una donna porta i sacchetti della spesa. Nell’aria, le mille emozioni dei minuti che corrono veloci, i ritardi, gli appuntamenti, gli impegni, l’angoscia, la tensione, le risate, gli affetti, il lavoro, gli amici, la casa, l’amore.
L’istituto?
Non sarebbe proprio possibile andarci oggi, non c’è tempo; domani?
No, domani no, con tutto quello che c’è da fare…
Io ritorno a casa, ho da studiare ancora qualcosa; devo sapere assolutamente in che anno è stato composto quel poemetto, devo ripassare il significato della congiunzione ”e” nel sonetto, congiunzione che sottolinea il rapporto dialettico fra luce e buio, ecc. ecc.
Devo saperlo per maturare, per diventare uomo. Certo.
Tanto domani sarà tutto diverso, i compagni di scuola, il sole, le attività frenetiche di tutti i giorni.
Tanto da questa parte del mondo non è possibile vedere cosa c’è al di là di quella grande curva in collina.
Dopo quella grande curva che separa due mondi così diversi, che nasconde Giuseppe, e gli altri del terzo piano…
In quel girone dove la vita è senza tempo, dopo quella grande curva.
Motivazione: Quelli che non fanno notizia se non per qualche interesse momentaneo. La vita che segue pieghe amare nelle stanze di una struttura. Gli invisibili sono vite sospese e senza speranza, ma un aspetto reale che ci riguarda a cui dedichiamo fuggevoli e preoccupati sguardi.
1°Classificato “Il cassonetto” Silvano Bertaina di Govone (At)
Il cassonetto 47
Io e i miei fratelli mangiamo nel cassonetto 47.
Proprio davanti, dall’altra parte della strada c’è il 46, ma noi ci andiamo raramente, perché appunto bisogna attraversare la strada e le macchine arrivano veloci, sebbene questa sia una strada stretta, di periferia, di quelle che dividono i palazzi come fossero fette di crostata.
Nel cassonetto 47 troviamo di tutto, tutto quel che ci serve per una dieta equilibrata, proteine, vitamine, grassi, anche i liquidi perché spesso, sul fondo si formano delle pozze nerastre, pisciate da qualche sacchetto mal chiuso e noi si beve lì.
E poi il cassonetto 47 ha una preziosa particolarità: la plastica si sta sfasciando in vari punti e vicino ad una delle ruote si è formato un buchino, nel quale riusciamo ad infilarci, anche Dimitri che è cicciottello ci passa.
Così non dobbiamo intrufolarci quando la gente viene a buttare la rumenta, che bisogna esser lesti e non farsi notare, sennò quelli -specie le femmine – si spaventano e lasciano andare di colpo il coperchio e una volta, quell’altro di un mio fratello, il più giovane, quello che chiamiamo Smerdino, manca poco che ci lascia la ghirba.
Comunque non è della nostra vita di ratti emigrati in città che voglio parlarvi. Ma di un fatto.
I fatti sono quelli che riempiono davvero la giornata.
Spesso si fanno troppe chiacchiere e congetture e voli pindarici e non si arriva a nulla.
I fatti invece restano e quel che abbiamo visto ieri è un fatto.
Devo premettere una cosa. Noi sorci dell’est siamo abbastanza rozzi.
La nostra famiglia pare abbia origini russe, se non addirittura siberiane, e abbiamo in testa poche cose, pochi principi e quasi nessuna regola indiscutibile.
Ci portiamo appresso un sangue infiammabile, a buona gradazione alcolica ed è per questo che siamo litigiosi, inaffidabili, umorali, approssimativi.
Siamo testardi e orgogliosi, non di essere russi o forse siberiani, ma di valere qualcosa più degli altri ratti occidentali, solo perché arriviamo da lande desolate, fredde e inospitali, dove i topi debbono arrangiarsi con radici e licheni e un cassonetto come il 47 se lo sognano la notte, quando la temperatura scende e camminando sembra di saltare su un tappeto elastico e la tana è così dura che si dorme uno sull’altro, non solo per riscaldarsi.
E una volta arrivati qui, per nave, su un camion di legname, pigiati su un treno merci puzzolente e zeppo di ratti d’ogni estrazione sociale – anche gente nobile in esilio o pantegane enormi in cerca di fortuna o sfuggite a qualche guerra senza morti da maciullare – una volta arrivati qui in occidente dicevo, lì per lì ci sembra il paradiso: cibo in abbondanza, buttato in ogni dove, clima mite, pochi gatti randagi e quasi nessuna trappola, insomma un buon posto per gente rozza come siamo.
E poi avvengono dei fatti che ad uno come me, con una sua sensibilità, fanno pensare.
E come una primavera nella taiga, vien voglia di tornare indietro, perché il richiamo della propria terra non si cancella, né si può far finta di non sentirlo.
Il cassonetto 47 è piazzato davanti ad un balcone al piano ammezzato di un palazzo altissimo, sette o otto piani. Dal cassonetto al balcone ci saranno due o tre metri di distanza.
Su quello stretto balcone, due metri per uno, c’è spesso un uomo, seduto su una seggiola scassata, che fuma o beve birra. O tutte e due le cose.
E’ un uomo magro, spelacchiato, uno di quelli con la pelle secca e grigia e le gambette magre, che non corrono da quando erano trent’anni più giovani.
Non capisco come possa resistere certe sere d’estate così vicino al cassonetto 47, perché i miasmi e l’odore di marcio che si diffonde intorno e si spande per tutta la via, fa schifo pure a noi.
Ho dimenticato di dirvi che proprio di fronte al palazzo dell’uomo grigio ci sta un identico palazzo, alto pure quello setto o otto piani, sicché la strada è un taglio profondo e zaffato, ostruita perdipiù da un lato, da una curva secca, ad angolo retto, mentre dall’altro vi è lo sbocco su una specie di tangenziale, col traffico incessante e rumoroso: ci sono volte che il rumore è perfino più fastidioso della puzza, sarà per il vento che lo trascina su e davvero non capisco come faccia l’uomo grigio a starsene a fumare e bere birra, seduto sulla sedia scassata, prigioniero in quello striminzito balcone.
Fatti suoi.
E sono certo, certissimo, che molte volte ci vede arrivare, attraverso la ringhiera del balconcino, prima Dimitri che è il più grosso, poi Alesa che è il più buono, poi Smerdino ed infine io, a chiudere la fila, che sono il più sveglio e so guardarmi alle spalle.
Ci segue per un po’, con certi occhi giallognoli, spenti e lontani; pare veda altro e non un cassonetto, quattro ratti, una stretta via fra due palazzi di cemento scrostato; è come se non ci guardasse davvero.
Chissà dov’è la sua anima e dov’era ieri sera, quando appunto è successo questo fatto.
Noi ci si stava avvicinando.
Saremo stati a due, tre metri, ficcati in un tombino per intenderci.
Arriva in quel momento un barbone, uno di quelli che dormono sotto i cartoni per strada e puzzano di notti dormite male. Per fortuna uno di quelli senza il cane, che una volta Alesa è stato quasi sbranato e se non era per Dimitri che morsicava la coda a quella bestia senza fissa cuccia, non so se saremmo ancora in quattro.
Ecco. Il barbone si avvicina al cassonetto 47 e nel contempo vede l’uomo grigio sul balconcino e lo saluta, come se si conoscessero, come se si fossero già incontrati.
Io dico a Dimitri di star buono, di aspettare e dalle fessure del tombino – che gli inglesi chiamano slot e servono anche per mettere i soldi nelle macchine che se li mangiano, ma questo non c’entra niente con la storia che vi sto raccontando, è una cosa che so, che mi hanno raccontato una volta – dicevo, dal tombino noi vediamo che il barbone solleva il coperchio del cassonetto 47 e comincia a rasparci dentro.
L’uomo grigio non ha risposto al saluto e nemmeno si lamenta della puzza che fuoriesce come una fucilata e arriva fino a noi.
Una puzza strana, sapor sangue e carne rancida.
Ecco che il barbone emette un gridolino, una specie di “Uao!” festoso e cava fuori un sacco nero e lo posa sull’asfalto.
Sono le otto, la strada spurga onde di calore, impregnata di lordura: non c’è un filo d’aria.
Il barbone è scuro di pelle, ha lunghi capelli grigi che gli cadono sulle spalle chiazzate di unto. Porta dei pantaloni di tela logora, strappati qua e là: ha occhi vispi, scuri, si guarda intorno come un uccellino.
Quel che tira fuori dal sacco nero è inequivocabilmente una gamba, tutt’intera o quasi.
Diciamo dalla coscia in giù.
Una gamba umana intendo, non una coscia di pollo.
Ora, dovete sapere che tra noi ratti dell’est c’è anche l’abitudine di mangiarci l’un l’altro, specie d’inverno, quando la fame è tanta e il cervello non razionalizza più, non vede la possibilità di sopravvivere e l’istinto prevale su ogni cosa, su ogni remora, su ogni misura.
Non nego che lasciato libero, forse Dimitri, di sicuro quel demente di Smerdino, potrebbero anche arrivare a mangiarsi un buon topino campagnolo, stecchito chissà perché e per come, ma fino a quando il capo famiglia sono io, questo non avverrà mai.
Diciamo che è una mia fissa e che da quel che so, viene praticata anche dagli umani, con rare eccezioni.
Ciò detto mi aspetto che il barbone riponga con orrore quella gamba – senza peli, dunque di femmina immagino – e scappi via a gambe levate a cercare un vigile, la polizia o l’ambulanza o che l’uomo grigio sul balconcino faccia un gran salto sulla sedia gridando:
-Quella è la gamba di una donna! Cosa caspita stai facendo? Posala!
Invece nulla di tutto ciò.
Il barbone emette un risolino enigmatico e per un attimo, solo per un istante,